MotM ESCLUSIVO | La Vita di un Migrante nel Gran Ghetto

L’accumulo di rifiuti all’aria aperta e venditori di vestiti sul retro del Gran Ghetto. Foggia, 8 ottobre 2019. ©Pamela Kerpius

 

16 ottobre 2019

Testo originale di:
Pamela Kerpius

Traduzione di:
Leonardo Urbini

Introduzione

“Basta dire “ghetto” e tutti sanno dirti che bus prendere per raggiungerlo. Basta dire ‘ghetto’”.

Peter* (Sierra Leone) me l’ha ripetuto più e più volte nei giorni precedenti alla mia visita. Sono indicazioni imprecise, se non addirittura dubbie, quando stai cercando di incontrare una persona in uno dei luoghi più sperduti d’Italia.

Peter vive in un ghetto nei pressi di Foggia dopo aver lasciato Isernia, una piccola città del Molise dove l’ho incontrato per la prima volta questa primavera. Ha vissuto ad Isernia per tre anni dopo il salvataggio in mare e la prima accoglienza in Sicilia nell’ottobre del 2016.

C’è voluto tutto quel tempo per avviare e completare la procedura di domanda d’asilo. Nel frattempo ha vissuto in un complesso convertito in appartamenti nella cittadina molisana, uno dei tanti alloggi temporanei destinati ai migranti in Italia. La sua domanda d’asilo ha avuto un riscontro negativo, ha fatto ricorso, ma anche questo è stato rifiutato, e quindi ha dovuto abbandonare l’abitazione definitivamente.

Poco prima che si trovasse senza una casa nel settembre del 2019, l’ho incontrato ad Isernia per raccogliere la sua testimonianza e registrare la nostra conversazione per il podcast Open Encounters.

Sapevamo che il suo sfratto era imminente, era questione di aspettare che la questura lo formalizzasse. Sapevamo anche che si sarebbe diretto a Foggia, dove avrebbe sicuramente trovato lavoro raccogliendo ortaggi in uno dei tanti campi agricoli pugliesi.

Sapevamo, inoltre, che si sarebbe trasferito in un ghetto. Ci sono vari ghetti nella periferia di Foggia, e le pessime condizioni di vita che li contraddistinguono sono ben note.** L’indecenza che Peter avrebbe affrontato al suo arrivo non era quindi una sorpresa.

Eppure lo è stata. La nostra umanità ci impedisce di essere adeguatamente pronti a vivere ai margini e nello squallore.

Ho detto a Peter che gli avrei fatto visita, e lui mi ha promesso che mi avrebbe scortato in quel luogo tanto pericoloso che pochi all’esterno hanno visto con i loro occhi.

Quel luogo è il Gran Ghetto, il peggior ghetto della zona. Esiste da decenni. Centinaia se non migliaia di migranti, regolari e non, vivono in questi ghetti durante l’alta e la bassa stagione agricola.

Fa tutto parte di un sistema di sfruttamento del lavoro dei migranti che rende impotenti i più vulnerabili, legandoli al lavoro agricolo che è scarsamente remunerato,  quando non possono trovare altro. Sono soffocati in condizioni di vita deplorevoli e antigieniche legate direttamente all’economia agricola italiana.

Andare al Gran Ghetto ed entrarci è un’esperienza spiacevole e rischiosa, a tratti quasi inquietante.

Il bus che traballava lungo strade malridotte e abbandonate, le montagne di rifiuti che circondano il ghetto, gli animali selvatici che sguizzavano in pozzanghere fangose e frugavano tra i rifiuti, l’odore di cherosene, di rifiuti in decomposizione e di urina spinti dal vento–questi sono solo alcuni degli aspetti orripilanti di questo luogo. Ma ce n’è uno peggiore: la rabbia latente nutrita dalle persone che sono costrette a credere di non meritare nulla di meglio.

Il Gran Ghetto è umanità scartata, resa talmente invisibile da risultare abbandonata. Fa parte di un’Italia dimenticata.

Le regole erano chiare dal principio: non sarei stata ben accetta. Sono arrivata con una telecamera ma, per quanto sia stata discreta e abbia cercato di riprendere l’area in modo etico, nessuno è fiero di trovarsi nel Gran Ghetto e di conseguenza non vuole che questa indecorosa realtà venga filmata.

Questo istinto territoriale è da intendere come baluardo estremo contro il vero e proprio annientamento della dignità di queste persone: se nessuno può vedere come vivono, possono risparmiarsi questa fondamentale umiliazione.

“Fai finta di giocare su un’app”, mi ha suggerito Peter mentre cercavo di fare qualche foto e video. Molte riprese, inevitabilmente, iniziano rivolte al terreno. Siate pazienti: c’è molto da vedere, ma ci vuole qualche fotogramma per arrivarci.

Fotografie e video sono stati realizzati nella massima discrezione per proteggere me stessa e, oltre ai fini della visita, per salvaguardare Peter e gli altri migranti che si sono resi disponibili a parlarmi durante la visita. Considerate quindi ciò che segue non come uno sguardo privilegiato dentro la vita nel ghetto, ma come un riflesso della nostra complicità collettiva.

Ecco il reportage in prima persona e uno sguardo all’interno del Gran Ghetto in seguito alla visita di MotM nell’ottobre del 2019. 

Fuori dall’accampamento: dei migranti senzatetto sulla via verso il Gran Ghetto. Foggia; 8 ottobre 2019. ©Pamela Kerpius

Fuori dall’accampamento: dei migranti senzatetto sulla via verso il Gran Ghetto. Foggia; 8 ottobre 2019. ©Pamela Kerpius

 


“Vieni, entra”, mi ha detto Peter accompagnandomi di fretta nella sua abitazione.

Si è tolto le scarpe su un bancale fangoso che funge da scalino d’entrata nella sua casa. Vive in una roulotte fatiscente, simile a quelle che si agganciano dietro a un furgone per un lungo viaggio – abbastanza grande per due letti – ma qui nel Gran Ghetto, l’accampamento isolato di Foggia dove i migranti vengono strategicamente abbandonati per essere dimenticati, li chiamano “container”.

Le parole contano. E in questo caso, questa definizione rispecchia la realtà, perché tutto ciò che fa questo spazio è ospitare le cinque persone che lo abitano. Una casa vera concede spazio per distendersi e rilassarsi. Un container ti “contiene” al tuo posto.

Questo container ha un fornello improvvisato collegato ad una bombola di cherosene che perde,  rilasciando un odore preoccupante e pungente nell’aria. Camminando in questa parte dell’accampamento ho notato che l’odore di gas era molto forte, così forte che se mi fossi trovata in un’altra situazione sarei scappata e avrei chiamato subito qualcuno per una riparazione d’emergenza. Ma qui non si applicano le normali procedure sociali. Si è in balia delle risorse irrisorie del Gran Ghetto.

Il fornello è ai piedi del letto di Peter, un materasso matrimoniale che condivide con altre due persone. Tre uomini adulti nello stesso letto ogni notte. Dall’altro lato, l’altro letto matrimoniale è incastrato tra la porta e un armadietto. Rimane solo un piccolo spazio rettangolare in cui si può stare in piedi. Non c’è privacy. La cucina, la camera da letto e lo spogliatoio sono un tutt’uno.

 
 
 
 


Rimango colpita dall’abitudine che abbiamo di creare una domesticità anche negli spazi più inabitabili per trovare pace nella routine. Peter paga 100 euro ogni sei mesi per affittare questo frammento di spazio.

Il suo coinquilino sta preparando del thè, un infuso amaro addolcito con dello zucchero. L’ha versato in tazzine da caffè in vetro su un vassoio in alluminio e me ne ha offerta una. Mi sfilo le scarpe, le metto sull’asse fangosa, ed entro.

Il pavimento all’interno è pulito. Tutto il resto però è rotto, consumato, fatiscente, rovinato, bruciato o scolorito – anche i muri, il microscopico bancone, le lenzuola. Ma il pavimento è tenuto diligentemente pulito. Il doversi togliere le scarpe prima di entrare è un atto di dignità che si sono imposti Peter e i suoi coinquilini, un’azione cerimoniosa da queste parti, dove le opportunità così sono scarse.

Accetto il thè con un grazie.

Con Peter parlo inglese, la sua lingua madre, ma con gli altri ragazzi parlo italiano perché sono originari di Conakry, la capitale francofona della Guinea. Nessuno di noi parla in italiano molto bene, ma è l’unica lingua che ci accomuna.

Ad essere sinceri, praticamente non è italiano, ma un miscuglio di imperativi, verbi mal coniugati e slang. Eppure, queste parole contano.

Ehi, capo”. Già, “capo”. È una parola che esiste ovunque e soprattutto, forse, in luoghi in cui nessuno ha potere.

Peter qui chiama tutti capo. Saluta i vicini con “capo” per le strade improvvisate del ghetto. Un’attenuante che penso usi per non destare sospetti su di me mentre lo seguo tranquillamente con la mia telecamera. Non dovrei essere qui, e quando qualcuno si accorge che sto scattando delle foto mi fa intendere che devo smettere. Mi osservavano. Anche nei tratti di strada che sembravano vuoti si sentivano segnali d’avvertimento.

 
 
 
 


A volte dei passanti mi dicevano in italiano “Non fare video!”, ma il più spesso si trattava di qualcosa di generale, un richiamo codificato che informava tutti della presenza di un intruso.

Peter si comportava normalmente, guardava dritto davanti a sé, mormorava qualche altro “Ehi capo” e mi diceva di mettere via la telecamera per il momento. Più tardi, di fianco a un mucchio immenso di rifiuti in fondo all’accampamento che sembrava una discarica a cielo aperto, ha diretto i miei scatti. Mi ha detto di prendere velocemente il mio telefono, di fare una ripresa a 360 gradi, e poi di fermarmi. Altre volte invece mi diceva di far finta di giocare col telefonino – “non far capire che stai scattando foto.”

Di fronte all’estesa montagna di rifiuti ci sono una serie di venditori, credo fossero migranti Rom, che vendono vestiti e scarpe usati e vari oggetti per la casa. Ho visto persino un televisore a schermo piatto appoggiato accanto a un telone, nonostante non ci sia elettricità nel ghetto. Peter dice che qui le persone comprano i vestiti e li spediscono alle loro famiglie in Africa. Uno di loro voleva vendermi una borsa blu per due euro. C’era fango tutto intorno. Pozze di fango accumulate dall’acquazzone del giorno prima, e un vero e proprio parcheggio pieno di auto.

Ci sono auto attorno tutta l’area dell’accampamento. Sembra ci siano più auto che container. Alcuni ci dormono dentro. Appartengono ai tassisti che portano per qualche euro i migranti fino al centro di Foggia oppure ai campi dove lavorano. Sono cinque euro a testa per andare dall’accampamento alla città seguendo un tragitto lungo una strada che porta oltre a quella principale - una strada infinita, un tratto isolato, pieno di buche – che si snoda e si perde tra i campi abbandonati finché non raggiunge il traffico del centro di Foggia.

 
 

Filmato del tragitto dal Gran Ghetto a Foggia a dimostrazione di quanto lontano si trovi. Foggia. 8 ottobre 2019. ©Pamela Kerpius

 
 


Tornando invece alle strade interne all’accampamento, è impossibile definirle asfaltate, ma semplicemente fango secco. Si sono asciugate, frastagliate e compattate così tante volte tra pietre sporgenti che è un miracolo se io e Peter non ci siamo storti una caviglia tornando indietro attraverso quel labirinto di container e di baracche di metallo.

Tuttavia, la strada intorno al ghetto è stata battuta per farti fermare o farti inciampare, non, come per definizione, per portarti in una destinazione precisa. E, ovviamente, il giorno della mia visita eravamo ancor più ostacolati dalle pozzanghere fangose accumulatesi per la pioggia del giorno prima. C’erano solchi sudici ovunque. A causa della pioggia, il giorno precedente nessuno aveva lavorato nei campi; Peter e altri nemmeno quel giorno.

Quei giorni liberi però incidono. In questo periodo di bassa stagione, Peter lavora solamente cinque o sei ore al giorno, dimezzando il suo stipendio regolare. Nel picco della stagione estiva i migranti passano al setaccio i campi anche per 11 o 12 ore di fila sotto l’intenso sole del sud. Alcuni hanno dichiarato di guadagnare appena 4 euro l’ora**. Peter ne guadagna 5.

La maggior parte di loro raccoglie pomodori e zucchine. Da poco è iniziata anche la stagione degli asparagi. Peter ha detto che li raccoglie a mano con un coltello, in piedi, chinandosi per ore. Si lamenta del mal di schiena, come tutti quelli che fanno questo lavoro. Sulla lunga strada che porta al ghetto, un gruppo di braccianti era ricurvo a recidere le piante nel campo di marijuana a fianco. Anche Amadou*, un ventenne proveniente dalla Guinea, si è lamentato della schiena, scuotendo la testa come per dire che è inconcepibile finché non lo si prova. Lui si occupa di riparazioni per cellulari su un comodino trovato in giro. È il suo “negozio” al bordo dell’accampamento, un lavoretto per arrotondare, ma niente di duraturo.

Tutto questo lascia dei segni fisici e psicologici. Peter ha un solco profondo nella cuticola di un dito, una cicatrice dovuta a un taglio accidentale mentre raccoglieva asparagi. Tutti quelli a cui chiedo di parlarmi del loro lavoro mi rispondono mostrandomi  le vesciche sulle mani che si sono procurati nei campi. Peter dice di non stare bene. Dice che la sua pelle non è più come prima, che il suo colorito è cambiato, e che anche il suo corpo ha cambiato forma.

Queste sono le conseguenze più immediate, anche se mi sembra ancora in forma e snello come quando ci siamo incontrati qualche settimana prima mentre viveva ancora ad Isernia. Piuttosto, era la pallida raucedine nella sua voce che suggeriva una deformità troppo insidiosa da scorgere. Nei vasti campi agricoli che circondano Gran Ghetto l’aria fresca sarà anche abbondante, ma è all’interno del ghetto che si cela un veleno che non si riesce ad esalare.

Ancora una volta si può parlare, letteralmente, degli scarichi delle auto e del fumo sprigionato dai piccoli focolai accesi in barili di metallo. Un uomo stava cucinando della carne direttamente sopra a un ciocco.

Ma le sostanze nocive sono anche immateriali, pesanti e asfissianti. Credo che le differenze che Peter ha osservato su di sé risiedano nella routine senza fine del Gran Ghetto.

Sa che ogni mattina si sveglierà in un letto stretto, senza privacy. Poiché non ci sono bagni, dovrà sempre camminare fino al campo adiacente per urinare e defecare. Vacillerà su una strada sconnessa schivando la spazzatura, gli ostacoli e gli scarti in decomposizione. Guarderà i sudici animali selvatici esplorare le strade del ghetto come se avessero anch’essi diritto di starci. Si laverà sotto l’acqua fredda in una doccia improvvisata. Terrà d’occhio le persone di cui non si fida. Salirà a bordo di un’auto di un autista senza patente per farsi portare nel campo e gli dovrà dare cinque euro per il servizio – che corrisponde al 20% del suo guadagno giornaliero. Lavorerà nei campi all’aperto per ore senza guanti e spererà di non ferirsi. E quando tutto sarà finito, tornerà alle strade fangose, agli animali selvatici, ai vicini sospetti e si chiederà come tutto ciò possa essere possibile in un paese pieno di speranze che ha lottato duramente per raggiungere. E alla sera, ritornerà a fatica nel suo affollato giaciglio e spererà di riuscire a dormire tra i suoi cinque coinquilini voluti dal caso. Si sdraierà nel buio, rigido e silenzioso, attentamente contenuto.

 
 
 
 


Era evidente che la sofferenza, la paura e la mera precarietà del trovarsi in questo posto fossero penetrate in tessuti molto più profondi dell’io corporeo di Peter.

Era però l’impatto di una sofferenza più grande, oltre all’enorme atto di riconciliazione con questo luogo come riflesso della propria identità, ovvero la consapevolezza che nessuno avrebbe riconosciuto la sua umiliazione come reale. C’è di peggio dell’oltraggio: sapere che tutto il mondo ignora la propria esistenza.

L’accurata concertazione delle procedure governative di questa piccola zona è progettata proprio per evitare di dover riconoscere che queste persone esistono.

Il Gran Ghetto non compare sulla mappa.

In precedenza era conosciuto come il Gran Ghetto di Rignano Garganico – Rignano Garganico è la città che si trova ai piedi delle colline oltre il ghetto e che rivendica quest’area. Data la sua ubicazione, il Gran Ghetto cadeva sotto questa giurisdizione. Ma essere associati a un ghetto è cattiva pubblicità per qualunque città. Il sindaco ha così provveduto a rimuoverne il nome, rendendo il Gran Ghetto (di Rignano Garganico) chiuso a livello amministrativo. Se non ha un nome, non esiste.

Le parole contano. All’entrata dell’accampamento, invece, c’è un cartello con scritto “Località Torretta Antonacci” che conferma, a livello burocratico, che si tratta di una località ufficiale, senza tener conto della reale natura del luogo. Come tutti sanno, si tratta di un ghetto. Torretta Antonacci è semplicemente il nome storico di quell’area di campagna.

Ad ogni modo, Peter va avanti. I suoi vestiti sono puliti e ben stirati. Ho notato che cura ancora il suo stile – porta un berretto, uno zaino sulle spalle – molto più rispetto a chi vive nel ghetto da più tempo. Lui è qui solo da qualche settimana. Altri sono qui da anni.

Col tempo il ghetto diventa la normalità. E credo che sia questo l’altro motivo per cui nessuno voleva che fotografie di questo luogo venissero fatte circolare. Essere riconosciuti in un momento di vergogna è contrario alla loro esistenza.

A delle persone già relegate ai margini, sfruttate, considerate un fardello e degli invasori nemici, persone disprezzate per il colore della pelle, che si sono viste strappare via la dignità ad ogni tappa, la cui possibilità di aver un qualsiasi ruolo integrato nella comunità è stato rimosso, a queste persone tutto quello che rimane è questo luogo dove il mondo non può vederle e privarle ulteriormente dei propri diritti. Se questo scompare, cosa gli rimane?

Ho incontrato Amadou che mi ha mostrato, ovviamente, la sua attività di riparazioni per cellulari. Ma c’è anche un barbiere (mi hanno consigliato di non fotografarlo), un mercato e un piccolo ristorante di strada. Anche alcuni dei coinquilini di Peter si sono messi a vendere abiti usati che raccolgono all’ingrosso in città – queste attività sono tutte tasselli di una comunità indipendente, costruita nelle peggiori condizioni, nell’indifferenza di tutti. Mostrare queste condizioni a quegli stessi estranei che hanno permesso quest’oltraggiosa marginalizzazione quindi mina gli sforzi di chi ha cercato di sopravvivere all’interno del ghetto.

Peter e il suo coinquilino hanno un calendario attaccato al muro del container. Tengono conto dei giorni, hanno il senso del tempo e una propria autonomia, contrariamente a quello che pensa il mondo fuori.

Dopo essere stata nel Gran Ghetto, nella terra dimenticata raggiungibile attraverso  strade vuote e sconnesse, che si nasconde nei suoi container umani, la distanza che mi separa da quel luogo ora è un po’ come un bambino che si copre gli occhi e dice “non mi vedi”.

Fondamentalmente, come una meschina negazione della realtà, o peggio, dell’umanità.

 
 

All’interno del ghetto sconosciuto di Foggia. Foggia. 8 ottobre 2019. ©Pamela Kerpius

 
 

Leggete la storia di Peter (settembre 2019) > (in inglese)
Ascoltate la Parte 1 della conversazione con Peter per Open Encounters > (in inglese)
Ascoltate la Parte 2 per Open Encounters > (in inglese)

* Il nome è stato modificato per sicurezza
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MotM ne ha parlato l’anno scorso dall’interno del ghetto di Borgo Mezzanone che si trova direttamente di fianco alla recinzione del centro di accoglienza civile per migranti del governo italiano, grazie a fotografie fornite da un uomo del Gambia che seguiamo e che ci vive.